Nella società dell’eccellenza l’unico vincitore è il capitalismo
🧑🏼💻 I. Carrara 🗄️ Meritocrazia 🗓️ 21 Dicembre 2023
Uno dei filoni più cari di questo blog sarà il tentativo di smascherare una delle false credenze del XXI secolo, la meritocrazia. L’obiettivo dichiarato è smascherare questo costrutto sociale per permettere una discussione proattiva a definire soluzioni comunitarie.
La meritocrazia è un concetto utopistico che si basa sull’idea che il progresso sociale e professionale dovrebbe essere determinato dal merito individuale, dalle abilità, competenze e successi personali, piuttosto che da fattori come la classe sociale, l’origine familiare o altri criteri non legati alle capacità personali. In una società meritocratica, l’accesso alle opportunità e alle posizioni di responsabilità è assegnato in base al merito, premiando il talento e il duro lavoro.
Tale concetto è però appunto utopistico perché presuppone l’ipotesi, spesso implicita o occultata dai demagoghi del nostro tempo, che il punto di partenza sia uguale per tutti gli individui. I problemi della meritocrazia tuttavia non sono quindi legati ad una imperfetta applicazione di tale concetto ma alla sua definizione intrinseca.
La meritocrazia ha svolto un ruolo di catalizzatore nell’accentuare le disparità sociali negli ultimi 30 anni, contrariamente allo spirito iniziale che la caratterizzava. In effetti, anziché promuovere l’uguaglianza di opportunità, questo sistema ha favorito la formazione di una nuova classe “aristocratica” [1]. Attualmente, la classe media fatica ad accedere alle stesse opportunità educative e professionali cui le élite hanno accesso diretto, poiché una barriera invalicabile si è eretta, determinata esclusivamente dal livello di reddito. In questa situazione, la classe media si ritrova confinata ai margini della società ed economia del proprio paese.
La condizione, tuttavia, non è neppure rosea per la nuova élite. Contrariamente alla tradizione di trasmettere il proprio status attraverso il sangue, la classe dominante attuale opta per un approccio basato su ingenti investimenti nell’istruzione e nella formazione dei propri discendenti. Di conseguenza, la progenie di questa nuova aristocrazia si trova costretta a rispondere ad aspettative sempre più elevate al fine di preservare questo cospicuo investimento in capitale umano. Per ottimizzare tale investimento, le élite si impegnano in un livello di lavoro intenso e prolungato senza precedenti nelle classi sociali dominanti nel corso della storia.
La dinamica attuale si è notevolmente discostata dall’antica aristocrazia, che attingeva il proprio reddito dall’uso di terre e fabbriche, generando così incredibili fonti di ricchezza grazie allo sfruttamento del proletariato. In contrasto, l’attuale élite basa la propria prosperità sull’investimento in educazione e formazione personale, sfruttando tale capitale al massimo fino a giungere al punto critico del burnout.
Un esempio tangibile di questa dinamica è rappresentato da Elon Musk, attualmente l’uomo più ricco del mondo. Nonostante la sua straordinaria ricchezza, Musk ha spesso affermato con orgoglio di lavorare anche 120 ore a settimana [2]. Questo fenomeno illustra come, anche all’apice delle classifiche economiche, l’élite contemporanea sia spinta a sfruttare al massimo il proprio capitale educativo e professionale, arrivando a impegnarsi in modo estremo per mantenere e aumentare il proprio status.
Per la prima volta nella storia moderna ed antica assistiamo ad il fenomeno paradossale in cui le elite hanno meno tempo libero rispetto alla classe lavoratrice [1].
La meritocrazia si rivela quindi un paradigma che comporta perdite diffuse, danneggiando tutte le classi sociali coinvolte. L’unico beneficiario apparente di questa situazione è il capitalismo sfrenato, che trae profitto dalla frenetica corsa verso l’eccellenza. Tale corsa genera un clima di ansia e preoccupazione diffuso tra la middle class, che, nonostante sforzi incessanti in termini di istruzione e lavoro, trova difficile accedere a determinate opportunità professionali. D’altro canto, anche per le élite, mantenere il proprio status richiede un’impeccabilità senza margine di errore, contribuendo così a creare uno stato di ansia collettiva e generazionale.
Questa circostanza ha evidenziato un collegamento significativo con l’analisi di G. Rensi [3]. Nel suo libro, il filosofo smaschera il lavoro come un’attività intrinsecamente schiavizzante e giunge alla conclusione che qualsiasi forma di rivoluzione, sia essa socialista o comunista, non porterebbe a un reale cambiamento dello status quo, poiché persisterebbe sempre una classe dominante che trae profitto dallo sfruttamento di un’altra classe sociale. Nella sua acuta analisi, Rensi non avrebbe mai previsto che il capitalismo avanzato avrebbe innescato una sorta di rivoluzione sociale, in parte involontaria, che avrebbe alla fine sottomesso gli individui di entrambe le classi sociali alla condizione di schiavitù.
Sorge spontanea la domanda su perché sia la classe dirigente che la classe media accettino questo patto sociale estremamente svantaggioso per tutte le parti coinvolte. Tuttavia, l’eventualità di una rivoluzione sociale viene disinnescata dalla subdola retorica della meritocrazia. Il problema intrinseco della meritocrazia risiede nel fatto che ha contribuito a plasmare una retorica che, in sostanza, non solo riconosce ma giustifica l’esistenza di profonde disparità sociali. Dall’angolazione delle élite, si percepisce di aver conquistato stipendi esorbitanti grazie al duro lavoro, affermando così che chi non ha raggiunto tali livelli di reddito lo ha fatto a causa di una presunta mancanza di volontà. Nella loro visione, la meritocrazia fornisce una giustificazione implicita per la disuguaglianza, attribuendo al merito individuale il successo o il fallimento economico. Dall’altra parte, la visione della classe media riflette un senso di colpa interno, suggerendo che il mancato successo è dovuto a un impegno insufficiente. Questo atteggiamento contribuisce a una mortificazione dell’esistenza lavorativa, poiché coloro che vengono esclusi dalle opportunità di lavoro di alto livello sono portati a credere che la colpa della loro situazione ricada interamente su di loro.
La domanda persiste: perché il risentimento della classe media non sfocia in una ribellione sociale? Ritengo che la beatificazione degli idoli che sono riusciti a elevarsi alla classe elite giochi un ruolo cruciale in questo contesto. La classe media si aggrappa all’illusione generata dalla narrazione dei miti, individui che, partendo da condizioni modeste, sono riusciti a raggiungere l’apice sociale. Questa narrazione funge da calmante, placando qualsiasi impulso rivoltoso con la speranza che un giorno, perché no, anche io possa elevarmi da questa massa apparentemente destinata a una posizione subalterna. Tuttavia, spesso ciò avviene senza considerare che l’ascensore sociale è bloccato da diverse decadi, ostacolato dall’avvento del liberismo e dall’erosione del welfare iniziata con M.Thatcher negli anni ’80.
La narrativa dell’ascesa sociale di alcuni individui, anche partendo da situazioni difficili, può fungere da filtro illusorio, nascondendo la stagnazione e le limitazioni strutturali presenti nell’attuale sistema socio-economico. La classe media, ancorata a questa illusione, potrebbe quindi trattenere il proprio risentimento, credendo nella possibilità di un futuro riscatto individuale, senza rendersi conto delle barriere sistemiche che ostacolano tale ascesa.
Gli Stati Uniti si configurano come uno dei massimi esempi di una distopia meritocratica, un sistema in cui gli studenti frequentano le scuole superiori pubbliche nel distretto in cui risiedono. Questo approccio, sebbene possa sembrare basato sulla logica della prossimità geografica, genera effetti collaterali significativi che contribuiscono a consolidare le disuguaglianze sociali ed economiche. Il risultato tangibile di questo modello è la creazione di quartieri contraddistinti da differenze socio economiche notevoli. Gli studenti provenienti da famiglie con un alto reddito frequentano scuole situate in quartieri altrettanto benestanti, mentre quelli con risorse economiche limitate accedono a istituti situati in zone a basso reddito. Questa segregazione geografica basata sul reddito non solo riflette ma rafforza le divisioni socio economiche esistenti generando una spirale che porta a limitare le possibilità di accedere alle università della Ivy League. Infatti le scuole nelle aree a basso reddito possono trovarsi in contesti meno favorevoli, con risorse educative più scarse e meno opportunità di accesso a programmi avanzati. D’altra parte, le scuole nelle aree ad alto reddito possono offrire risorse più abbondanti e una maggiore varietà di opportunità educative. In questo modo, il sistema di assegnazione delle scuole basato sulla residenza contribuisce a erigere una barriera economica che limita le prospettive di crescita e successo per gli studenti provenienti da contesti socioeconomici meno agiati.
Anche se meno evidente anche la situazione in Italia non più rosea. Un esempio eclatante sono i tirocini extracurricolari alla fine del percorso universitario.Davanti a una competizione spietata per le opportunità di tirocinio presso aziende di prestigio, queste realtà di rilievo possono agevolmente proporre tirocini non retribuiti, erigendo di fatto una barriera economica insormontabile per la maggior parte delle famiglie italiane. La sfida finanziaria associata a tali tirocini è considerevole: il fatto che non tutti possano permettersi sei mesi senza un reddito, spesso a fronte della necessità di trasferirsi in città economicamente più floride rispetto alla propria residenza, crea una selezione naturale che penalizza chi proviene da contesti economici meno agiati. Questo scenario contribuisce a definire un sistema in cui solo una ristretta élite ha la capacità di accedere a queste ambite opportunità e di arricchire il proprio curriculum con esperienze di lavoro prestigiose, determinando così una direzione chiave per la futura carriera professionale. Tuttavia, nemmeno le élite ne escono indenni da questo processo. La notevole competizione in questo contesto le costringe a dedicare un impegno straordinario, superando spesso le canoniche 40 ore settimanali di lavoro per emergere in un ambiente caratterizzato da richieste sempre più esigenti.
Qualunque fosse l’originario scopo della meritocrazia, la combinazione con il sistema capitalistico moderno ne ha completamente distorto il significato, dando vita a un sistema che facilita la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi individui e fornisce un fondamento teorico al concetto stesso di disuguaglianza sociale.
Esiste dunque una società in cui la meritocrazia possa svilupparsi mantenendo il suo significato originale? In un modello socio-economico differente dall’attuale capitalismo, potrebbe prosperare senza portare alle realtà distopiche che spesso osserviamo oggi?
Citation:
[1] The Meritocracy Trap: How America’s Foundational Myth Feeds Inequality, Dismantles the Middle Class, and Devours the Elite, Daniel Markovitz
[2] Elon Musk says cutting his 120-hour workweek isn’t an option, CBS News
[3] Contro il lavoro, Giuseppe Rensi