L'iper qualificazione nel sistema meritocratico neo-liberista

🧑🏼‍💻 F.S                🗄️ Meritocrazia               🗓️ 2 Gennaio 2024

Il merito nel sistema neoliberista è un falso mito, ideato per drogare le masse con l’illusoria credenza che le qualitĂ  individuali, la determinazione ed altre specifiche caratteristiche umane possano sbloccare l’ascensore sociale, da qualsiasi punto di partenza l’individuo si trovi. 

Tale assunto è ormai da tempo oggetto di critica da parte di moltissimi pensatori [1] e le nuove generazioni stanno lentamente ma inesorabilmente prendendo coscienza dell’infondatezza del merito come valore. 

 

Nonostante questo, i governi dei Paesi occidentali rimangono sordi a tali trasformazioni, continuando a propugnare la tesi del merito come criterio per giustificare le enormi diseguaglianze tra ceto basso e medio e gli strati piĂą alti della societĂ  (basti pensare che in Italia , il governo di Giorgia Meloni ha modificato il nome del Ministero dell’istruzione in “Ministero dell’istruzione e del merito”, dando un chiaro segnale politico). 

 

Il presente contributo non si soffermerĂ  sulla critica del merito in quanto tale nel sistema neo-liberista, ritenendolo ormai un punto assodato nella discussione (per quanto totalmente o quasi ignorato nel dibattito pubblico), ma si concentrerĂ  sui modi in cui si esplica e sulle conseguenze che lo stesso comporta tra i soggetti, con un particolare riferimento ai nati dopo il 1989, l’anno della caduta del muro e dell’affermazione universale del capitalismo. 

 

Nei Paesi anglofoni il titolo di “dottore” può essere utilizzato solo da coloro i quali abbiano terminato il college e conseguito un PhD, cioè abbiano, in altre parole, concluso il terzo ciclo di studi di piĂą alto livello. Lo stesso accade in Germania e in altri Paesi del mondo. In Italia, basta una laurea triennale per potersi fregiare del titolo di “dottore”. Tale differenza ha una ragione politica, prima ancora che economica. La laurea triennale, infatti, è stata introdotta relativamente presto nel sistema accademico italiano [2], col dichiarato fine di mettere in pari l’etĂ  di entrata del mondo del lavoro dei giovani italiani con quella degli altri Paesi Europei. 

 

La storia della riforma è interessante perché ci fa comprendere come operi il Capitale nella società atomizzata neoliberista, il quale, di fronte alla crisi del precariato e del lavoro, risponde con la logica viziata del merito. Non sono importanti, infatti, gli anni di studio e la qualità degli stessi, ma l’unica cosa che conta è il titolo. Sprezzante delle tradizioni accademiche, il Capitale, per abbassare l’età media del laureato, semplicemente taglia anni di formazione del percorso universitario, rivelando come nella realtà economica il titolo sia solo un modo per livellare e calmierare il mercato.

 

L’introduzione del percorso di laurea 3+2 ha comportato l’estensione di un anno al tradizionale ciclo universitario, ottenendo risultati contrari agli obiettivi iniziali. Tale modello presenta diverse criticitĂ . In primo luogo, l’implementazione del percorso di laurea 3+2 ha incentivato la diaspora di talenti, poichĂ© un numero crescente di studenti predilige ottenere la laurea magistrale all’estero, per poi avviare la propria carriera professionale in contesti internazionali anzichĂ© nel proprio paese di origine. Questo fenomeno dimostra la perdita di risorse intellettuali e competenze specializzate, con possibili conseguenze negative sullo sviluppo e la competitivitĂ  del nostro paese.

 

In secondo luogo, emerge un ulteriore motivo per la crescente tendenza a conseguire la laurea magistrale all’estero: il percorso di studi avanzati sembra carente nell’offrire le competenze necessarie per un’integrazione efficace nel mondo del lavoro. Questa lacuna contribuisce al persistere del problema noto come “skill mismatch”. I tirocini post-laurea, presentati come rimedio a questa situazione, si rivelano spesso occasioni lavorative sottopagate, costringendo le nuove generazioni a un periodo prolungato di formazione e accumulo di esperienza. Questa circostanza non solo ritarda l’ingresso nel mondo professionale (con drammatiche conseguenze sull’indipendenza dei giovani), ma alimenta anche l’insoddisfazione e la sfiducia tra i giovani nei confronti del sistema educativo e delle opportunitĂ  lavorative offerte dal proprio paese.

 

In aggiunta, va sottolineato che l’implementazione del modello 3+2 ha introdotto complicazioni significative nella fase di redazione della tesi triennale, rendendola spesso un processo troppo breve per sviluppare un lavoro di ricerca significativo e trasformandola in uno step burocratico.

 

A distanza di più di 20 anni, si può tranquillamente dire che la laurea triennale ha fallito il suo intento, generando invece un risultato diametralmente opposto, forzando quindi gli studenti a proseguire con una laurea specialistica per poter rendersi competitivi con il mercato.

 

Recentemente, in Italia, alcuni politici di primo piano stanno mettendo in discussione i criteri di ingresso alla facoltĂ  di medicina [2], da piĂą di vent’anni ancorati al c.d. e temutissimo test, che si svolge poco prima dell’inizio dei corsi universitari. Tale questione è attuale per il ridottissimo numero di medici ospedalieri in Italia e la crisi della sanitĂ  pubblica, problema sociale di grande rilievo. Come noto, il test si compone di un certo numero di domande a risposta multipla, tra cui alcune di cultura generale, logica e altre materie non strettamente legate alla formazione di un medico. Naturalmente, anche in questo caso la giustificazione della presenza del test era ed è legata alla fictio del merito, selezionando i futuri medici sulla base della capacitĂ  di ottenere un punteggio elevato al test. Ora, alcuni politici stanno criticando l’attuale sistema, proponendo invece di optare per il modello francese, nel quale gli studenti sono selezionati dopo un anno in base ad un test di sbarramento. In sostanza, anzichĂ© essere selezionati con un test “secco”, la selezione stessa si prolunga, con la prospettiva, per lo studente, di passare due anni (se il primo anno si viene bocciati all’esame, si può ripetere solamente una seconda volta) nella facoltĂ  di medicina ed essere poi buttati fuori, creando effetti devastanti sulla salute psico-fisica degli studenti e creando scenari di iper-competizione durante gli studi. 

 

Nel caso dei medici, il test di ammissione “secco”, per quanto, ripeto, aberrante e assolutamente non meritocratico, consente a coloro che non lo superano al primo o secondo colpo di dedicarsi ad altro, piĂą gratificati (oppure, se convinti, di ritentarlo), e a coloro che lo superano di vedersi garantito, dopo anni di studio, un posto di lavoro dignitoso (al netto degli scarsi stipendi degli specializzandi e dei medici in generale). 

 

Tuttavia anche l’accesso libero ed indiscriminato genera sostanziali problematiche. L’esempio che sovviene è l’accesso all’albo degli avvocati, o il concorso per notai e magistrati. L’accesso a giurisprudenza è infatti a numero aperto, ma per potere lavorare nelle professioni classiche (avvocato, notaio e magistrato) è necessario superare esami e concorsi con bassissime percentuali di successo, dopo aver maturato i requisiti in tirocini lunghi ed impegnativi. Il risultato è la presenza di numerosissimi dottori in legge che non riescono a superare gli sbarramenti dopo anni investiti in un certo tipo di percorso. Nascono, in questo contesto, laureati che appaiono come figure amputate dal sistema, prodotti di un paradossale non sense  in cui le competenze acquisite sono ritenute sufficienti per il titolo di dottore, ma insufficienti per l’effettiva pratica professionale. Ciò conduce alla formazione di professionisti intrappolati in una sorta di purgatorio, costretti a cercare di redimersi da questa condizione attraverso il sacrificio della propria salute psicofisica.

 

Gli esempi sopra citati hanno in comune il mito del “merito”. Qualsiasi selezione, infatti, per quanto assurda, viene sempre giustificata dalla capacitĂ  individuale di “potercela fare”, trasformando spesso il compagno di banco in un pericoloso rivale da annientare, anzichĂ© in un collega di studi con il quale condividere il sapere e poter avere un confronto. 

Gli studenti sono così intrappolati in delle bolle di competitività, in cui la cooperazione è vista come deleteria e non come un valore aggiunto, mostrandosi come un riflesso del mondo capitalista postmoderno in cui viviamo.

 

Qual potrebbe essere, dunque, un criterio di selezione adeguato che non soltanto eviti di generare disuguaglianze, ma che al contempo consideri attentamente le condizioni individuali di ciascun individuo? Come potremmo sviluppare un sistema di valutazione che rifletta la diversitĂ  di background, esperienze e potenzialitĂ , garantendo al contempo un trattamento equo e una valutazione accurata delle abilitĂ  e delle aspirazioni personali?

 

Alcuni elementi cruciali, come la famiglia di appartenenza, il tempo a disposizione per lo studio, anche la semplice predisposizione ed il metodo di apprendimento, sono totalmente ignorati. I test, i concorsi, i master (peraltro spesso costosissimi) che le aziende e ormai anche lo Stato richiedono per poter accedere a sempre più numerose professioni , altro non sono che l’imposizione del mercato libero, che giustifica la disuguaglianza nascondendosi dietro la libertà individuale e l’esaltazione infinita del singolo, senza mai interrogarsi, per propria costituzione (il mercato non porta valori etici) sugli effetti devastanti che tale modello porta nella società.

 

In conclusione, e generalizzando il discorso, il precario (per alcuni, il proletario 2.0) si colpevolizza per la propria condizione, interiorizzando la visione della classe dominante, vergognandosi e sfuggendo alla definizione (nessuno si definisce orgogliosamente precario), evitando di unirsi ai suoi affini in grandi movimenti di massa e di conseguenza rimanendo con le armi spuntate . 

Referenze

[1] La Tirannia del merito, Micheal J. Sandel

[2] Con il decreto del MURST del 3 novembre 1999, n. 509, del ministro Ortensio Zecchino, vennero riformati i corsi di studio universitari, con l’ introduzione del “sistema del 3+2” ovvero della creazione della laurea triennale e della laurea specialistica. 

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